Era una giovane promessa di Enduro, ma un incidente in gara ha cambiato completamente la sua carriera sportiva e la sua vita. All’improvviso Mattia Cattapan si è trovato su una sedia a rotelle privo dell’uso delle gambe, ma la famiglia e la passione dei motori gli hanno dato la forza di reagire alla grande.
È riuscito a tornare in pista e ha fondato l’associazione CROSSabili per aiutare altri ragazzi disabili. Recentemente lo abbiamo visto lungo il percorso della Mille Miglia a bordo dell’Alfa Romeo 1900 TI del 1954 che prima di lui era stata guidata dal pilota di Formula Uno Clay Regazzoni. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare la sua storia, un esempio di come un ragazzo è riuscito a superare una bruttissima disavventura ed è tornato più forte e determinato di prima.
Indice
La Mille Miglia
Mattia Cattapan ha partecipato alla Mille Miglia 2020 sulla Alfa Romeo 1900 TI Super numero 500 che era stata guidata nel 2002 in Messico da Clay Regazzoni, già costretto sulla sedia a rotelle a causa di un incidente in Formula Uno. L’auto che era già stata predisposta per la guida di un disabile, è stata riparata completamente perché in quella gara l’ex ferrarista era finito in un burrone distruggendola. Mattia Cattapan è tornato al volante di quell’auto insieme al copilota Dario Mancini e ha partecipato come guest car a quella che viene definita “la gara più bella del mondo”.
Mattia, cosa significa guidare un’auto del genere?
Ho avuto l’onore di guidare questa macchina che era stata guidata per l’ultima volta da Clay Regazzoni. La Scuderia del Portello è riuscita a ripristinarla e a portarla in gara. È un’auto che ha una storia magnifica dietro. Oltre che un grandissimo pilota di Formula Uno, Clay Regazzoni è stato un pioniere per il mondo della disabilità. 30 anni fa essere disabile veniva visto come una vergogna e invece lui ha ribaltato il verso della medaglia e ha dimostrato che un paraplegico può guidare un’auto. È stato proprio Clay a creare i comandi per guidare questa auto.
Hai portato un messaggio importante in una gara di prestigio.
La cosa bella di questa avventura è che 1000 Miglia ha sposato il progetto Disabilità senza barriere. Grazie a loro, alla Scuderia del Portello e a Waze, che ha finanziato il progetto, sono stato in grado di coinvolgere le persone più deboli del mondo del motorsport e delle auto storiche. Ho partecipato alla gara più bella del mondo e ho attraversato luoghi magnifici. Ho capito che non è una gara per vecchietti, ma qui ho conosciuto i miei nuovi supereroi. È una gara molto intensa: si parte alle 6.30 del mattino e ci si ferma a mezzanotte. È una gara di 1200 km che fai su auto come la nostra del 1954: ogni volta che devi staccare o frenare ti fai il segno della croce. Non avrei mai pensato di poter fare la Mille Miglia perché non era nel mio focus, ma è stata un’esperienza fenomenale. È bellissimo quando passi in mezzo alle persone per far vedere l’auto. Ogni volta che abbassavo il finestrino e vedevano che sono disabile volevo urlare: “se ce l’ho fatta io, potete farcela anche voi!”.
La Mille Miglia è una gara molto faticosa, ma ti regala emozioni uniche tra i borghi più belli d’Italia. Raccontaci questo viaggio.
È stata un’avventura magica: 1200 km in 4 tappe con il mio copilota Dario Mancini, passando in mezzo a castelli e strade strettissime. Un problema era trovare i benzinai lungo il percorso perché queste auto bevono più di me, poi controllare la temperatura dell’acqua e accendere manualmente la ventola appena arriva a 90°, guardare continuamente la pressione e la temperatura dell’olio. Abbiamo avuto anche degli imprevisti, ma i ragazzi della Scuderia del Portello sono stati magici: immagina dover trovare il differenziale di un’auto del 1954 per poter continuare la gara. Lì ho conosciuto la vera passione: ho visto auto aperte, senza la capotta, sfidare le intemperie. Non ci credevo, è stato bellissimo.
La giovane promessa di Enduro e l’incidente
La passione per i motori è stata una costante per Mattia Cattapan, classe 1990 di Asolo (Padova), super appassionato di moto da cross. Era una giovane promessa di Enduro nel suo Veneto, ma ha anche ottenuto risultati molto importanti a livello internazionale. Tutto questo fino a quel terribile incidente nel 2013 in una gara a Sacile, in Friuli Venezia Giulia.
Mattia, ci racconti come hai iniziato?
L’inizio è stato un po’ particolare. Considera che sono sempre stato un ragazzino casinista ed estroverso. Facevo ciclismo solo per fare le cingane in bici (gara all’aperto ad ostacoli, ndr). Mia mamma non voleva più farmi bere il latte dalla “ciuccia” (termine veneto, ndr) e così le ho detto: “non bevo più dalla ciuccia se mi prendete la moto. E a 6 anni ho avuto la mia prima moto da cross. Senza farlo apposta, davanti a casa mia avevano aperto un’officina KTM, così passavo i miei pomeriggi a dividere becchi e guarnizioni e a guardare moto e motorini. Ero un rompiballe anche là perché volevo sapere e capire, poi ho iniziato a girare con la moto, coinvolgendo i miei amici.
Poi hai iniziato a lavorare e a fare le gare.
Ho iniziato a lavorare a 15 anni perché la scuola non mi è mai piaciuta e se andavo a lavorare avevo la busta paga e se avevo la busta potevo comprarmi le elaborazioni e le moto che mi piacevano. A 16 anni ho comprato la prima moto da Enduro, un KTM 125. Mi ricordo ancora che, finito il rodaggio, ho sbiellato e ho rotto l’albero a metà. Da quel momento ho iniziato a fare il Campionato del Triveneto e ad allenarmi con gli amici. Ho avuto un buon maestro, Matteo Rubin, che nel 2000 è diventato anche campione del mondo di Enduro. Poi a 18 anni ho fatto il salto di qualità e ho comprato il mio primo 450, quella che viene definita la moto di ferro, una moto veramente brutale. Nell’ottobre 2012 mi sono classificato terzo in una gara internazionale ad Attimis e da lì ho iniziato ad allenarmi seriamente anche in palestra. Era scattato qualcosa in me per alzare l’asticella. A novembre ho comprato il KTM 2013, la moto delle moto, quella dei miei sogni.
Quando la strada sembrava in salita, hai avuto quel terribile incidente.
A marzo del 2013 ho fatto quella gara a Sacile. Arrivato sul circuito ho fatto il giro di ricognizione e ho visto subito che quel punto era pericoloso perché si arrivava dalla parte bassa alla parte alta e c’era un fosso, infatti molti lo saltavano. Io sono arrivato forte, la moto è rimasta da una parte e mi ha sbalzato, ho fatto una capriola e sono rimasto là. La cosa particolare è che non ho mai perso coscienza, sono sempre stato lucido. Sono esplose due vertebre e un frammento osseo ha lesionato il midollo causandomi la paraplegia. Mi hanno portato in ambulanza all’ospedale di Pordenone e, prima ancora di fare la Tac, ho telefonato a mia mamma per tranquillizzarla. Nei momenti successivi il mio carattere ha sempre fatto la differenza: una parte di me ha sempre cercato di non affrontare mai i problemi da solo, ma insieme.
Quando hai realizzato che tutto sarebbe cambiato?
Nella mia vita non era la prima volta che finivo in carrozzina perché a 15 anni ho preso un virus al midollo osseo e a 6 anni mi ero rotto il bacino dopo essermi capottato in bici. La sensazione di perdita dell’uso degli arti inferiori già la conoscevo. Non sapevo però cosa mi sarebbe successo dopo. Per quanto la situazione sia difficile, è inutile piangersi addosso. La mia motivazione è sempre stata la famiglia. Sono stato subito positivo anche per la mia famiglia perché è difficile per dei genitori pensare che il figlio sarà disabile su una carrozzina. Il momento in cui ho realizzato è stato quando mi hanno messo sulla carrozzina e ho sentito delle scosse nelle gambe, delle contrazioni involontarie che ho ancora oggi. In quel momento capisci di non avere più il controllo del tuo corpo. Mi sono accorto che il grosso problema della paraplegia non è la carrozzina; il vero problema è a livello neurologico, il non riuscire più ad usare i muscoli. Questa è difficile da accettare anche dal punto di vista psicologico.
La seconda vita di Mattia
Mattia è un ragazzo che non si arrende. Il suo racconto appassionato trasmette la grande forza interiore che gli ha permesso di reagire. Nonostante la disabilità è riuscito a tornare in pista. È l’esempio di chi ce l’ha fatta, ma nella sua esperienza c’è qualcosa di più: ha anche deciso di aiutare gli altri, ha fondato l’associazione Crossabili e ancora oggi è vicino alle persone in difficoltà.
Mattia, raccontaci come è cambiata la tua vita dopo l’incidente.
All’inizio il problema è vestirsi, spogliarsi, andare a letto, salire in auto per venire a casa nel weekend, andare in bagno, farsi la doccia. È come essere un bambino che deve imparare tutto. Devi lavorare su te stesso e sul tuo corpo giorno per giorno. È tutto un mondo che non conosci, ma che ti trovi davanti all’improvviso. In questi momenti è inutile lamentarsi: se non tiri fuori gli attributi, nessuno può aiutarti. Devi creare una corazza per poter sopravvivere
Hai superato queste difficoltà e sei rientrato alla grande, partecipando anche a gare con atleti normodotati sia con kart cross che con auto d’epoca. Ci racconti questa ripartenza?
Io avevo il sogno di tornare in pista, ma non potevo permettermelo. Un giorno sono andato al bar a bere un caffè e ho incontrato un signore che mi ha chiesto perché ero triste, così gli ho spiegato che avevo un progetto ma che non trovavo chi mi potesse dare una mano. Lui mi ha invitato in ufficio e, senza neanche guardare i fogli, ha firmato il progetto. Mi ha detto: “io credo in te”. È stata un’emozione unica che auguro a tutti perché ti dà la grinta necessaria per oltrepassare l’ostacolo.
A quel punto avevi tutto quello che ti serviva?
A quel punto avevo i soldi, ma non avevo punti di riferimento da imitare perché Clay Regazzoni e Alex Zanardi sono grandissimi, ma loro avevano già conoscenze e contatti mentre io non avevo nessuno. Ho trovato diverse realtà che mi hanno aiutato a costruire il kart ed è nato il sogno. Pensavo che la disabilità fosse un limite perché devi comunque guidare con le mani e invece non è stato così: fin dai primi test in Salento ho avuto un feeling pazzesco nonostante non avessi esperienze precedenti con l’auto.
E poi cosa ho fatto? Per non sentirmi parte di quella élites persone irraggiungibili, visto che ogni cosa da disabile sembra una vetta impossibile da scalare, ho speso una parte dell’importo per realizzare il kart e tutti gli altri soldi li ho spesi per il sociale.
CROSSabili e le iniziative sociali
Mattia ha iniziato a fare gare e allo stesso tempo investiva parte del denaro che riceveva per sostenere iniziative sociali. È in questo contesto che ha fondato CROSSabili, una associazione no profit che offre alle persone con disabilità una serie di attività finalizzate all’inclusione, alla condivisione, al divertimento, all’autonomia e allo sport.
Quindi è qui che è nata CROSSabili, corretto?
Sì, volevo dare speranza perché se ce l’ho fatta io puoi farcela anche tu, qualunque siano la tua disabilità e le tue forzature mentali: con impegno, determinazione, grinta e costanza puoi arrivarci. Entro a far parte del team Daboot e arrivo a fare esibizioni al livello di Eicma, la fiera del ciclo e motociclo più importante al mondo: ero l’unico italiano a fare un’esibizione di Kart Cross. Beneficiavo di quegli eventi per supportare tutti i progetti che avevo nel sociale. Conta che l’anno scorso ho fatto 52 eventi.
Da quanto tempo va avanti questo tuo impegno?
CROSSabili è nata ufficialmente l’anno scorso, ma è da tre anni che porto avanti dei progetti. I ragazzi sono stati la benzina che ha alimentato la consapevolezza dentro di me. Ero il tipo che non è mai voluto andare a scuola e andare a parlare nelle scuole mi sembrava impossibile. Ho fatto gli eventi all’interno dei centri diurni o degli ospedali dove ci sono i bambini nei reparti oncologici: qui devi metterti la maschera, chiudere il cuore e portare il sorriso. È molto difficile perché hai in comune il dolore, la disabilità e quindi hai un legame immenso. Poi ho fatto eventi con i ragazzi down: a loro basta che fai una foto e gli dici ciao per essere contenti. Ti accorgi che nella vita basta poco e non serve lamentarsi sempre. Ho scoperto il vero amore che non è seguire la massa, ma coinvolgere e condividere. La mia seconda vita vale 100 volte più della prima.
Ci racconti qualche aneddoto?
Ogni volta sono emozioni veramente forti. Penso a Davide, un ragazzo di 16 al quale hanno diagnosticato un tumore terminale. Abbiamo condiviso dei momenti speciali all’ospedale e abbiamo fatto insieme una raccolta fondi, poi una settimana dopo è venuto a mancare. Mi ero fatto firmare una foto da lui, le emozioni forti sono proprio quelle di condividere dei momenti con un ragazzo fino alla fine.
Una cosa bella è quando porti questi ragazzi a mangiare e bere e poi uno per volta gli fai fare un giro sul kart come buggy terapia. Queste sono emozioni che solo i motori riescono a dare. Quando vedevo gli abbracci che mi davano, ho capito che ero sulla strada giusta.
Una cosa che mi è successa di recente è stata la chiamata di una mamma che mi ha detto che suo figlio, aveva 16 anni, non aveva problemi e ha avuto un arresto cardiaco mentre era a cena con gli amici. Lui mi seguiva sui social. I genitori hanno voluto donare le offerte del funerale all’associazione Crossabili per dare un senso a tutto. Il giorno dopo sono andato da loro per conoscerli. Ancora una volta mi sono accorto di essere sulla strada giusta, ma anche di avere una grossa responsabilità.
Nella tua esperienza, oltre a vivere certe situazioni in prima persona, hai conosciuto molte altre persone con disabilità. Quali sono le principali difficoltà nella mobilità?
Il problema principale sono le barriere architettoniche, la vecchia tipologia di architetture. Per esempio se entri in casa mia non ti accorgi che è una casa per disabili, ma in realtà ho una doccia a filo pavimento, il wc che è spostato 20 cm dal muro, la cucina che mi permette di passare sotto con le gambe. Si tratta solo di avere un’altra prospettiva. Per esempio nel 80% degli hotel ho delle difficoltà.
Tu però ti sei impegnato concretamente per limitare le difficoltà. Cosa hai fatto?
Di solito dove vedo problemi cerco soluzioni. Per esempio, ho lanciato una linea di pantaloni perché sono fatti per persone in piedi e mi sono accorto che ogni volta che indosso un paio di jeans normali mi trovo con il cavallo ammucchiato e scoperto. Perché non posso avere un paio di pantaloni belli? Se non me li fanno loro, me li faccio io.
A proposito di progetti, ti abbiamo visto all’arrivo della Mille Miglia a Brescia. Quale sarà la tua prossima tappa?
Durante la Mille Miglia mi sono venute tante idee. Vorrei partecipare alla Sahara Racing Cup con una Panda 4×4 nel deserto perché è un progetto grosso che può essere utile per altri ragazzi. Poi ho un progetto che si chiama Disabili in viaggio ed è supportato da Pink Run, la maratona per sole donne che viene fatta a Padova. Poi ho tanti altri progetti in ballo, anche dei prototipi per disabili che vedrete presto.
Anni fa ti saresti mai immaginato tutto questo?
Assolutamente no. La disabilità mi ha permesso di fermarmi, scavare in me stesso, scegliere cosa fare della mia vita e aiutare gli altri. Se non avessi avuto questa sfortuna (o forse anche fortuna), forse mi sarei trovato in officina a saldare con la tuta da lavoro e a mangiarmi il fegato per mandare avanti la piccola azienda di famiglia. Una vita che non avevo scelto. Tutto questo mi ha aperto un mondo: la mia vita era andare al lavoro e poi al bar, mentre ora giro l’Italia e sono in contatto con migliaia di persone.