Tourist Trophy, quell’attrazione fatale per il pericolo

In questa edizione 2022, a gare ancora in corso, sono già morti tre piloti.

Foto di Carlo Portioli

Carlo Portioli

Esperto moto custom

Le moto e la musica, mia moglie e gli amici, la birra e le chiacchere ma più di tutto amo cercare di capire. Le mie opinioni sono espresse dall'alto di niente.

In questi giorni si corre il Tourist Trophy sull’isola di Man e le notizie che arrivano non sono buone: in questa edizione 2022, a gare ancora in corso, sono già morti tre piloti. Due settimane, una di qualifica e una di gare lungo i 60km del Mountain Circuit, una lunga lingua di saliscendi e curve tra strade di campagna e paesi che dal 1907 si trasformano nel più famoso e temuto circuito stradale del mondo.

Il TT è un’attrazione fatale, la luce più intensa per le falene della velocità, ma è anche il lascito di un epoca in cui i circuiti stradali facevano parte delle gare del Motomodiale (Giacomo Agostini ne vinse ben 10 in carriera). Sono piloti che corrono pericoli mortali ogni metro di quei 60km, ma non sono incoscienti che bevono quattro grappe e partono a bomba dal bar: questi sono professionisti preparati in modo maniacale per correre sul Mountain, che conoscono ogni centimetro del percorso tanto che le telemetrie restituiscono dati che parlano di una precisione di guida umanamente quasi impossibile.

Le leggende che nascono su quel circuito oggi bruciano di una fama minore, ma ardente. Alla luce delle notizie che arrivano, in questi giorni si spendono mucchi di parole sul TT e sul pericolo connesso a questi tipi di corse. Invece penso che servirebbe silenzio.

Bisognerebbe guardarsi allo specchio in silenzio per provare a capire noi che persone siamo e come ci relazioniamo con il pericolo, come lo percepiamo e che effetto ha su di noi. Passiamo ogni momento della nostra esistenza correndo una somma di pericoli mortali che scampiamo in modo più o meno consapevole. Ogni gesto quotidiano ha un tasso di pericolosità che è superiore a zero: mangiare, camminare per strada, andare al lavoro, perfino andare a letto.

Da un certo punto di vista vivere equivale a rischiare di morire continuamente, finché poi non succede. Eppure non consideriamo questa realtà brutale che ci paralizzerebbe, semplicemente la rimuoviamo. La rimuoviamo ogni volta che saliamo in moto e qualcuno vicino a noi ci chiede perché lo facciamo che è pericoloso.

La risposta? Minimizziamo, neghiamo. È che quel rischio lo abbiamo interiorizzato, metabolizzato, sminuzzato fino a digerirlo. Non è qualcosa che accettiamo, è semplicemente qualcosa che facciamo finta che non esista perché questo ci consente di andare avanti e fare ciò che amiamo. Ed è quello che fa ogni pilota che corre il TT, solo che, diciamo così, mentre noi digeriamo un pasticcino, loro digeriscono una torta intera.

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Chiediamoci quanto siamo diversi da chi decide di correre e magari morire su un circuito stradale, per il brivido e per una gloria d’altri tempi, scolpita nella pietra del culto della velocità, distante anni luce da quella fama eterea e inconsistente dei social media.

Forse scopriremmo che siamo meno diversi di quanto pensiamo, forse loro sono solo più pazzi di noi, ma di quella stessa follia di tutti i giorni che serve per alzarci dal letto e andare a vivere. E allora guardiamo chi sfida la sorte per diventare un eroe al cospetto dei propri dèi in rispettoso silenzio, chinando il capo senza giudicarli pazzi, perché di quella stessa follia siamo malati tutti e si chiama umanità.

Per chi ha desiderio di approfondire il TT, un libro e un film: “Joey Dunlop Il Re del Tourist Trophy” di Mario Donnini e il film imperdibile “Closer To The Edge“.