Il primo motore V4, un fallimento che ha fatto la fortuna di Ducati

Il fallimentare progetto che ha generato le più fortunate bicilindriche della storia Ducati, tra geniali soluzioni e un ritrovamento in Giappone

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Alex Ricci

Divulgatore di motociclismo

Romagnolo classe 1979, scrittore, reporter, divulgatore appassionato di moto, storia, geografia, letteratura, musica. Adora Junger, Kapuściński, Sting e i Depeche Mode.

Abituati ai successi sportivi e commerciali di Ducati negli ultimi anni, molti considerano che l’era del V4 sia iniziata con l’impegno nella classe MotoGP e i prodotti stradali (Desmosedici e Panigale V4), ma il primo vero progetto di una moto quattro cilindri di grosse dimensioni risale agli anni sessanta e porta il nome del celebre programma della NASA, “Apollo”.

La missione di Berliner

L’idea nacque dall’importatore Ducati per gli Stati Uniti, Joe Berliner, che intendeva vincere la concorrenza delle moto americane, specialmente Harley-Davidson, per la fornitura di mezzi alle forze di polizia. Dovendo competere con i grossi bicilindrici di Milwaukee, a Borgo Panigale progettarono qualcosa che non avevano mai fatto fino a quel momento, realizzando un propulsore di 1.256 cc, quattro cilindri a V di 90° con sistema di controllo delle valvole desmodromico.

Tale soluzione era già stata adottata dall’Ing. Fabio Taglioni che l’aveva sviluppata su motori monocilindrici fino ad un massimo di 200 cc. Il risultato fu importante e una volta assemblata, la moto pesava 270 kg, aveva 100 Cv di potenza e raggiungeva la velocità di punta dei 200 km/h. Finita nel 1963, la Ducati Apollo sembrava in grado di soddisfare le richieste per le quali era stata commissionata dato che la sua diretta concorrente, l’Harley-Davidson “Duo Glide” 1240 cc., pesava 310 kg, sviluppava una potenza di 60 Cv, per una serie di prestazioni inferiori alla moto italiana che, elegante, comoda e potente, mostrava ottimi requisiti.

Qualche difetto emerse comunque dopo le prime prove, ma era principalmente un problema legato alle gomme prodotte in quegli anni, non adatte alla potenza di 100 Cv e la relativa velocità dei 200 orari, tanto da indurre a delle modifiche. I cavalli scesero a 65, ma una volta depotenziato, il motore perse tutto il suo spunto, la moto divenne pesante, di più scarsa manovrabilità e meno appetibile all’utente d’oltreoceano. Un altro dato sfavorevole era la scarsa reperibilità dei ricambi negli USA, fondamentali per un ipotetico motociclista, che rese impopolare la scelta dell’Apollo.

Il nome Apollo fu scelto in accostamento al programma spaziale del governo di John Fitzgerald Kennedy, che nel 1961 avviò il percorso che avrebbe portato l’uomo sulla Luna. Il 20 luglio del 1969 i cosmonauti sbarcarono sul nostro satellite con alle spalle quasi un decennio di missioni non tutte andate bene, mentre il progetto Apollo Ducati non riuscì in nessuna delle sue versioni a conquistare la stima tale da servire le autorità statunitensi per cui era concepito. Ma se Berliner non poté spuntarla sull’Harley-Davidson, a Borgo Panigale nulla fu lasciato al caso.

Dal fallimento all’idea

Naufragata l’ipotesi di fornire una moto di grossa cilindrata ai “piedipiatti” americani, alla Ducati presero in considerazione un’altra strada suggerita dall’esperimento Apollo. Infatti, osservando il motore a quattro cilindri a V “separati”, altro non è che l’accoppiamento di due classici bicilindrici come quelli che hanno fatto epoca nella produzione bolognese. Il primo bicilindrico era stato un parallelo verticale di 175 cc. di scarso successo, allestito da Taglioni per il Motogiro del 1957. Con il nuovo progetto, negli anni settanta nacquero moto di grossa cilindrata che grazie alla distribuzione desmodromica, vantavano alti regimi di rotazione in virtù di una maggior affidabilità del sistema di apertura e richiamo delle valvole.

Come il tanto lodato motore boxer BMW deriva dai motori aeronautici, si può dire che i bicilindrici ad aria di motociclette come la 750 SS Desmo Imola, le 750 GT e Sport, la 900 Super Sport Darmah, o le Pantah 500 e 600 TL del 1979, s’ispirino direttamente al motore dell’Apollo. Con un cilindro in posizione orizzontale, il passaggio dell’aria durante la marcia garantisce il corretto raffreddamento al cilindro verticale. Mentre le combustioni hanno un rapporto un po’sbilanciato (ogni 270° e 450°), le vibrazioni sono più contenute poiché quando un pistone si trova al punto di inversione del moto, l’altro è circa a metà corsa e con la sua energia cinetica aiuta il primo nel superamento del momento di stallo.

L’unica è in Giappone

La storia delle “bicilindriche rosse” è piena di successi sportivi internazionali, soprattutto nelle derivate di serie, che per anni sono state un punto di riferimento e “spina nel fianco” delle supersportive giapponesi. Ed è proprio nel paese del sol levante che troviamo, ironia della sorte, la Ducati Apollo. Nel 2000, un giornalista giapponese, Miyata Yoji, che si trovava a Bologna in visita al museo, davanti al massiccio propulsore 1.260 esposto disse al curatore della mostra, Livio Lodi, di aver visto un esemplare completo di quella moto a casa di un collezionista in Giappone.

La conferma arrivò qualche tempo dopo quando, rientrato in patria, Yoji telefonò in Italia per informare Lodi di essere in contatto con Iroaki Iwashita, possessore dell’unica Apollo al mondo. A questo ritrovamento fece seguito la proposta d’acquisto del pezzo da parte di Ducati, che venne prontamente respinta. In cambio però, Iwashita, concesse al museo di tenere la moto per sei mesi. Un prestito pagato dall’azienda con un’accurata opera di restauro.