Martina Lucini, uno tra i più brillanti ingegneri del campionato Superbike

Poteva fare il medico, ma tra studi e passione, Martina Lucini è oggi uno dei profili più interessanti tra i tecnici del Mondiale Superbike. Gira in moto, lavora molto ed è ingegnere di pista del team BMax.

Foto di Alex Ricci

Alex Ricci

Divulgatore di motociclismo

Romagnolo classe 1979, scrittore, reporter, divulgatore appassionato di moto, storia, geografia, letteratura, musica. Adora Junger, Kapuściński, Sting e i Depeche Mode.

“Donne e motori” è sicuramente uno degli adagi che abbiamo sentito ripetere più spesso. Un classico vecchio come l’invenzione del motore a scoppio, che accosta la femminilità a un mondo fatto di adrenalina, sprezzo del pericolo e avventura. Gli ambienti, che solitamente hanno un taglio maschile, stanno diventando sempre più eterogenei e questo modo di dire, che nel suo senso originale è ormai superato, si avvale oggi di altri significati, soprattutto in campo sportivo. E’ il caso di Martina Lucini, un promettente ingegnere di pista di anni trentuno, che con compiti precisi e la gestione della parte elettronica delle moto, è uno dei profili tecnici più interessanti del WorldSBK.

Lavora nel team italiano BMax e gestisce insieme ai suoi colleghi la BMW M1000S con motore ufficiale portata in pista da Gabriele Ruiu. Per saperne di più l’abbiamo intervistata e ci ha raccontato gli aspetti più significativi del suo mestiere, mostrandoci un punto di osservazione sulle gare molto più interessante e complesso di quanto si possa pensare.

Da dove nasce l’infatuazione per le motociclette, la velocità e le corse?

M. In realtà è nata un po’ dal nulla, nel senso che tutta la mia famiglia non ama le moto, fanno tutti i medici compresa mia sorella, quindi non è la passione di casa. La passione mi è venuta per caso quando avevo dodici anni e la domenica mattina guardavo i cartoni animati. Quel giorno in tv non li trasmettevano e al loro posto c’era la diretta del Motomondiale. Mi sono incuriosita, ho guardato le gare e da lì è nato tutto e mi ritrovo dove sono adesso. A sedici anni ho cercato in tutti i modi di farmi comprare una moto, poi ci sono riuscita da sola e da lì ho deciso quale doveva essere il mio lavoro nella vita.

Come molti, avresti potuto coltivare questa passione girando in moto, frequentando gli ambienti o andando alle gare, ma cosa ti ha spinto a voler diventare un tecnico di questo livello?

M. Andare in moto mi piace, ho un’Honda CBR stradale, ho girato anche in pista, ma non l’ho mai vista come un’ipotesi di lavoro. Mentre quello che faccio deriva dalla voglia di capire, conoscere il perché una moto si comporta in un certo modo, come raggiunge certe velocità, o come fa a stare in piega e questa curiosità mi ha fatto scoprire un mondo che mi è piaciuto sempre di più.

Nel tuo mestiere quali sono le cose più importanti al fine di ottenere dei risultati soddisfacenti?

M. Sicuramente il rapporto con la squadra e con il pilota. Ho incontrato tanti tecnici nella mia vita, soprattutto in Superbike e mi son resa conto che un vero genio non esiste perché puoi anche aver capito tutto delle moto, ma se non riesci a comunicare con il pilota e interpretare bene quello che cerca, non si ottengono risultati. Se dal punto di vista fisico e dinamico della moto riesci a raggiungere la perfezione, che è molto difficile, ma il pilota non si trova bene con quella configurazione, non si ottiene un risultato soddisfacente. La stessa cosa vale per i componenti del team, dove ci sono meccanici che lavorano da più tempo di me, ma se non riesci a comunicare con loro su quello che fai e gli chiedi e come poterlo ottenere, non si arriva da nessuna parte.

Lavori nel team BMax, lo scorso anno avete fatto la prima gara mondiale a Portimão, ed era un po’ un premio per il lavoro di una stagione, da quest’anno prendete parte a più gare con un motore ufficiale. Com’è?

M. Guardando la moto si capisce già che c’è una grossa differenza. I motori ce li fornisce direttamente BMW e non li possiamo toccare. In questo siamo molto limitati e non so dirti se dipende solo dal fatto che siamo un team esterno. La moto ha tanto potenziale, ma ancora non riusciamo a sfruttarlo. La moto che usavamo al CIV ci piaceva molto, ma era diversa. Ora dobbiamo lavorare tanto su questa in configurazione mondiale e ci piacerebbe avere anche più supporto dalla casa madre.

Che si gareggi in Italia o in giro per l’Europa, viaggiare è stancante, costa sacrificio, ed è inutile ripetersi che tutto questo è mosso dalla passione. C’è qualcos’altro di personale che ti fa dormire poco, alzare presto, mangiare al volo e lavorare duramente sulle moto?

M. Quando lo scorso anno siamo passati dal National Trophy al CIV, avevamo gli occhi addosso perché entravamo in territorio di altri. Al CIV, come nel World Superbike, ci sono tanti team storici che sanno fare le gare e con il fatto che siamo tutti giovani e tutti facciamo un po’ di tutto perché siamo pochi, vogliamo dimostrare che non è indispensabile stare in una categoria da trent’anni per avere dei risultati, ma che si può compensare con l’impegno che ci si mette anche con solo pochi anni d’esperienza alle spalle. E’ una sorta di riscatto che cerchiamo di avere, soprattutto nel WSBK, dato che quando siamo arrivati al Campionato Italiano abbiamo percepito un alone di scetticismo nei nostri confronti.

Ho anche il desiderio di affermazione personale in quanto spesso vengo scambiata per la ragazza del pilota o mi rispondono come se fossi fuori posto. C’è uno scoglio di credibilità da superare che non tiene conto di quanto l’ingegnere Martina abbia lavorato o studiato sulla moto riguardando la telemetria per una settimana, perché la fiducia che ho me la devo costruire. Entrando in questo team mi sono accorta che tutti avevano un po’ il mio stesso obiettivo e in ciascuno dei componenti della squadra vedo questa voglia di riscatto. C’è la voglia di lavorare fino a tardi per la necessità di dimostrare che si può stare nella categoria di vertice senza un budget di chissà quante centinaia di migliaia di euro. Quello che mi piace molto del mio team è proprio questo e abbiamo in comune la spinta che ci manda avanti.

Che idea hai tu del lavoro?

M. Per quanto ho studiato e per tutto quello che ho imparato, andarmene a lavorare in un’azienda con un orario fisso e uno stipendio fisso decisamente più alto sarebbe la strada più semplice, ma il motivo perché non lo faccio è che mi piace stare lì. Quando torno dalle gare rileggo tutte le telemetrie, ragiono su quello che i piloti mi hanno detto, sistemo tutte le cartelle in modo da tenere tutti i dati ordinati. Se il pilota mi presenta un problema che non siamo riusciti a risolvere durante il weekend di gara, mi studio la soluzione a casa cercando di capire cos’è sfuggito.

Questo lavoro per me è lo studio fisico di tutta la moto, della sua dinamica, di come si comporta e non solo seguire delle linee o far tornare dei conti. In questo ambiente ho visto persone che prima facevano i fotografi e successivamente lavorano sulle moto. Per me non è così che funziona e contrariamente a quello che si può pensare, è un lavoro di studio che non può fare chiunque e bisogna guardare ai dati con una vera e propria analisi e non come a dei numeri.

Oltre al WSBK, il tuo team è iscritto al National Trophy con due piloti che sono Eddi LaMarra e Remo Castellarin. La categoria è sempre 1000 cc, il campionato è “open”, come ti trovi con loro e cosa fai di diverso per metterli nelle migliori condizioni di correre.

M. Mi trovo bene. Remo lo conosco da tempo, aveva già corso con noi ed è un amico stretto di Massimo (Buna, titolare del team) e fa parte del nostro gruppo di amicizie. E’ una persona molto precisa e per scherzo lo chiamiamo il test-rider perché quando non riusciamo a capire qualcosa, lui è quello con una maggior duttilità e in questo ci da una mano. Eddi invece è stato una scoperta perché lo vedevo come un pilota molto forte, per questo più distaccato e temevo di non riuscire ad entrare in confidenza con lui. Dopo due gare, siamo già in ottima sintonia, ma conoscendolo poco devo conquistarmi la sua credibilità.

Parlando del lato tecnico, la differenza che noto tra National e Superbike è che nel primo ci sono tanti turni brevi e si possono analizzare i problemi parlando con i piloti di volta in volta. Al Mondiale ci sono solo tre turni di prove libere, più lunghi e a volte si devono prendere delle decisioni in fretta, perché è tutto più frenetico.

Qual è la soddisfazione più grande che ricordi?

M. Il terzo posto al CIV con Ruiu a Vallelunga nel 2021. Era il nostro primo anno al Campionato Italiano Velocità nella classe Superbike e in quell’occasione, che era l’ultima gara, ho pianto sfogando tutta la frustrazione di un’intera stagione.

Sei felice?

M. Questa è la domanda più difficile di tutte (ride). Snì! Posso rispondere snì? Sono felice perché faccio un lavoro che amo, quello per cui ho studiato. Fin da piccola ho studiato con questo obiettivo e tutto quello che ho fatto nella vita, comprese le rinunce, le ho fatte per arrivare qua. Evitavo le uscite con gli amici per studiare o perché avevo un esame e il lavoro stesso si è comunque rivelato più difficile di quanto pensassi. Oggi vorrei avere più tempo libero per me stessa, non vado in vacanza da circa otto anni e mi piacerebbe visitare un posto che non fosse un circuito, con più tempo per riposarmi.