BMW, Zundapp e Douglas: il motore boxer tra passato e presente

Uno dei più longevi e solidi motori della storia: chi l’ha fatto e l’ha impiegato, storie di modelli e marchi dal secolo scorso ad oggi.

Foto di Alex Ricci

Alex Ricci

Divulgatore di motociclismo

Romagnolo classe 1979, scrittore, reporter, divulgatore appassionato di moto, storia, geografia, letteratura, musica. Adora Junger, Kapuściński, Sting e i Depeche Mode.

Questo schema, appunto, è oggi uno dei capisaldi della produzione BMW, che negli anni ha saputo mantenere ed evolvere, in virtù dei cambiamenti e delle mode. Utilizzato per equipaggiare diversi modelli della casa bavarese fin dai primi anni del novecento, viene istintivo ricordare la gamma GS enduro che, con l’R80, ha dato il via alla lunga e inesorabile escalation che, dal 1980 ad oggi, annovera modelli in ogni epoca recente.

I marchi celebri

Ma se BMW ne ha fatto un evergreen della sua produzione e non solo, è altrettanto vero che l’impiego del motore boxer in campo motociclistico ha molti padri. Zundapp (che insieme a BMW fu copiato da russi e cinesi) e Douglas sono alcuni degli esempi più famosi, mentre il primo motore a cilindri contrapposti di cui si abbia notizia e di cui si sia conservato un esemplare, è quello costruito da Karl Benz nel 1897 (vedi foto qui sotto).

Nella foto il motore Karl Benz del 1897.

Caratteristiche del boxer

I due cilindri, solitamente raffreddati ad aria, sono contrapposti l’uno all’altro con un’angolazione di 180°. I vantaggi che offre un motore di questo tipo sono l’affidabilità e la coppia che arriva fino agli alti regimi, ideale per i grandi spostamenti. Il punto di forza maggiore è l’elasticità del motore data dall’angolo piatto dei cilindri, che annulla tutte le forze contrarie al movimento dei pistoni, eliminando l’effetto giroscopico dei punti morti, praticamente assenti.

La variante inglese

Solitamente orientati in modo trasversale rispetto al senso di marcia, nel caso della Douglas, inizialmente il boxer era ruotato di 90° sull’asse della moto, con un cilindro rivolto in avanti e uno rivolto all’indietro, entrambi paralleli al suolo. Anche la trasmissione era diversa dal cardano presente nelle Zundapp e nelle BMW. Alcuni modelli hanno la trasmissione finale a catena e altri hanno la cinghia dentata che tira in una puleggia grande quasi come il cerchio della ruota posteriore.

Il boxer in Italia

Nessuna marca italiana produce oggi modelli dotati di questo bicilindrico, ma non è sempre stato così. Nel secolo scorso, tra le molte aziende di ciclomotori e motocicli, spuntano esempi di raffinata ingegneria. E’ il caso della Capriolo Cento50 (questo era il nome esatto), fabbricata ad Arco di Trento dalla aeronautica Caproni. Presentata nel 1953, era spinta da un boxer di 150 cc, in posizione trasversale, con albero di trasmissione longitudinale e trazione finale a catena. Alimentato da un solo carburatore, sviluppava 7,5 Cv a 6000 giri.

Mentre nel 1956 la Caproni cessava la produzione della sua Cento50, a settecento chilometri di distanza e più precisamente a Baia, vicino a Pozzuoli, un’altra fabbrica portava a termine la realizzazione di una moto dalle caratteristiche molto simili. Fu presentata con il nome di Rocket 200 e prodotta dalla IMN (Industria Meccanica Napoletana), nata dalla conversione del “Silurificio Italiano” di Baia.

Un’eccellenza tecnica

Per quanto rara come proposta, la Rocket 200 non brillava solo per l’adozione di un motore boxer, ma per altre qualità tecniche che per i tempi erano decisamente all’avanguardia. L’integrità della ciclistica con il propulsore era sbalorditiva. Il telaio a traliccio era collegato al motore in un solo punto centrale e libero di oscillare. Il carter era prolungato, fungendo da forcellone a cui erano attaccati gli ammortizzatori. Il risultato estetico di grande pulizia, incorniciava l’ottima efficienza delle sospensioni posteriori e l’eccellente condizione di lavoro della trasmissione ad albero.

La Rocket 200 sviluppava 11 Cv a 6100 giri e ciò la rendeva appetibile anche sotto l’aspetto prestazionale. Come la Aeromere Caproni (nome completo), anche la IMN era finita sotto la gestione dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) e in poco tempo cessò di occuparsi di motociclette, nonostante il potenziale della propria gamma. La causa del fallimento fu spesso individuata nella pessima gestione e nei conflitti di interessi da parte dei dirigenti Finmeccanica.

Se entrambi i modelli sopra citati ebbero vita brevissima, bisogna ricordare che in ordine cronologico, la precedenza spetta al motore ASPI (Attrezzature Servizi Pubblici e Industriali), comparso al Motosalone del 1947. Bicilindrico boxer a due tempi, nelle versioni 125 e 175 cc raffreddato ad aria, accensione a volano magnete, trasmissione ad albero e potenza di 5 Cv.

Il miracolo economico

L’ultimo tentativo di produrre un motore boxer degno di nota risale al 1961 a carico della rinomata azienda Iso. Il gruppo lombardo mise in produzione un modello di 500 cc di chiara ispirazione BMW, ma completamente italiana nelle sospensioni e nel telaio, a confermare le grosse possibilità industriali di quel periodo storico. Tra le aziende rappresentanti del “miracolo economico”, la Iso abbandonò il progetto e la produzione delle moto, che cessò definitivamente nel 1966.

Arrivano i giapponesi

Tre anni più tardi, nel 1969, faranno la loro comparsa nel nostro continente le moto giapponesi, riscrivendo la storia del motociclismo, come in parte l’avevano pensata alla Iso. L’enorme successo di questi nuovi modelli, portò la produzione nipponica a coprire tutti i segmenti del mercato con la propria gamma. Pensando di produrre la più grossa e confortevole moto da turismo, nel 1975 alla Honda realizzarono il modello Goldwing GL-1000 equipaggiato da un quattro cilindri boxer.

Mai uscita di produzione e costantemente aggiornata, nel tempo l’Honda Goldwing è salita di cilindrata fino all’odierno 1.833 cc e monta un sei cilindri boxer da 126 Cv. Attualmente a catalogo, viene venduta in tre allestimenti.